Ostenda, sabato, 10 luglio 2010
Ore 15.00
Due cose condivido dell'articolo di Zucconi di cui ho abbondantemente parlato (fin troppo!) i giorni scorsi: 1) l'indifferenza verso i pronostici del polpo Paul, che effettivamente sarebbe meglio affidare alle cure di uno chef; 2) l'indifferenza per la finalina.
Credo di aver espresso in ogni diario mondiale che ho tenuto fino ad oggi le ragioni per cui vorrei che fosse eliminata, ma voglio aggiungere una riflessione nuova.
Due giorni fa, in balcone a Francoforte, mi chiedevo chi avrebbe vinto il titolo di capocannoniere del mondiale: favoriti d'obbligo, ovviamente, Sneijder e Mara-Villa, a quota cinque reti ciascuno.
A quattro reti, però, ci sono tre calciatori che disputeranno la finalina (Klose, Müller e Forlan), più Suarez che di reti ne ha segnate tre. Tutti costoro, supponendo che siano in campo stasera, avranno il vantaggio di poter giocare una partita meno imbrigliata tatticamente rispetto a una vera finale: presumibilmente si giocherà per attaccare, più che per difendere. Ad ogni buon conto, le squadre potrebbero impostare il proprio gioco con lo specifico fine far segnare uno dei propri attaccanti, un lusso che non può certo concedersi chi deve vincere la coppa. La Germania, in particolare, potrebbe decidere di supportare Klose, in corsa anche per raggiungere (ed eventualmente superare) Ronaldo quale calciatore più prolifico durante le fasi finali del torneo. Con due reti, sperando che dommani Villa e Sneijder non vadano a segno, potrebbe raggiungere entrambi i traguardi ed entrare nella storia. Supponendo che questo sia il suo ultimo mondiale, mi sembrerebbe un modo assai più che onorevole di cedere il passo alle nuove leve (Müller?).
Indipendentemente da tutto questo, cioè da quali obiettivi e quale atteggiamento tattico caratterizzi le protagoniste della finalina, non vedo perché calciatori già eliminati dalla competizione debbano avere una partita in più per provare a vincere la classifica dei marcatori.
Non credo che la guarderò, questa finalina. Non la guardai nemmeno nel 1998, impegnato com'ero a rimorchiarmi una ragazza. La serata di oggi la passerò con gli amici. E anziché parlare di una partita inutile, parlo di me stesso.
Ho cominciato a scrivere un diario mondiale, fatto di note personali e di commenti alle partite, dodici anni fa. Lo scrivevo su un vecchio Macintosh PowerBook 170, uno dei primi laptop prodotti dalla Apple, un oggetto che a vederlo oggi si proverebbe un moto di tenerezza e nostalgia. Lo scrivevo per me e, per lo meno a quei tempi, non lo lesse nessuno. Quattro anni più tardi ero il co-fondatore di una rivista telematica calcistica dal nome promettente: Pallainrete. L'esperienza del diario, emendata delle note personali, fu dunque proposta allo scarso (numericamente) pubblico della rivista e forse, online, ne resta ancora qualche traccia. Ai tempi di Germania 2006 l'avventura di Pallainrete si era conclusa, quanto meno per il sottoscritto: decisi perciò di provare a far fare un salto di qualità al mio diario. Proposi a quasi tutti i quotidiani italiani e a moltissime riviste di ospitarlo sulle loro pagine, come striscia quotidiana; come unico indennizzo, desideravo la possibilità di richiedere un accredito per alcuni incontri della manifestazione. L'unico giornale che rispose al mio appello fu La Stampa di Torino, che mi ringraziò rifiutando tuttavia la mia offerta: l'evento aveva già una copertura giornalistica sufficiente. Fui grato al quotidiano torinese, tuttora fra i miei preferiti (lo era già prima di questo episodio), ma naturalmente deluso per l'esito complessivo dell'operazione. Fu così che il diario ritornò un'esperienza privata, a cui tuttavia non volli rinunciare: partii per la Germania lo stesso e riuscii anche a vedere l'esordio degli Azzurri allo stadio.
Nel 2006 ero laureato da pochi mesi e coltivavo il sogno, per non dire l'obiettivo, di avviarmi in maniera seria alla professione giornalistica; per passione e per competenza, ritenevo che lo sport fosse l'ambito a cui ero più versato, benché fossi piuttosto flessibile e aperto a qualsiasi proposta.
Dal 2007 a oggi ho firmato articoli su varie testate in Italia e all'estero: l'esperienza più significativa e negativa resta la collaborazione con un quotidiano chiamato cattolico sostenuto da fondi di partito e da finanziamenti pubblici: terminata questa esperienza, a marzo del 2010, è tramontato anche il mio progetto di diventare un giornalista. Caduto il progetto, mi resta qualcosa di appena pià che un sogno; l'ho messo su uno scaffale, accanto a quello (di bambino) di diventare un calciatore.
Il diario mondiale, però, non può togliermelo nessuno. Alla ma vita attuale di addottorando riconosco il pregio di avermi consentito di seguire abbondantemente, ancora una volta, le numerose partite disputate nel corso di queste settimane. Mi sono potuto permettere ore come queste, alla luce di una candela o al sole di un parco, a scrivere di Maradona o di Messi, di CR9 o della Germania, della crisi dell'Italia o delle trovate di Till Stellino per ricevere il segnale di una partita su un televisore portatile. Mi sono divertito e ho ricevuto perfino qualche commento, cosa che ha superato le mie più rosee aspettative. Non ostante abbia scelto di ospitarlo in un blog e non ostante parli di un evento cui si dedica la stampa internazionale, questo resta soprattutto un diario, una tradizione personale, un libro privato di cui si sta per concludere il quarto capitolo.
Quattro anni fa, da neolaureato, godevo di libertà pressoché assoluta: mi muovevo agilmente fra le città della Germania (Heidelberg, Stoccarda, Ludwigsburg, Tubinga, Hannover) e l'Italia; trascorrevo l'intera giornata, che ci fossero partite in programma o no, ad informarmi, a documentarmi, a scrivere, a catturare immagini e atmosfere. Di quel mese conservo ricordi bellissimi e amicizie preziose.
Oggi, quantunque sotto questo aspetto mi senta un privilegiato, ogni minuto che dedico all'evento è tempo sottratto a ben più noiosi doveri e ogni partita che vedo, ogni pagina che scrivo, sono comunque il risultato di una scelta, di un compromesso. Sottraggo ore al sonno e rimando ciò che si può rimandare. A volte scrivo di fretta e sono certo di commettere degli errori. Sulla S-Bahn per Mainz, sui regionali per Heidelberg o sull'ICE per il Belgio tiro fuori il mio leggerissimo netbook e lascio che le mie dita, come quelle di un pianista maldestro, scorrano sulla tastiera.
È probabile che di questo risenta lo stile; è probabile che i dati che cito, spesso a memoria, non siano sempre esatti; è probabile che questo diario sia perfettibile, che qualcun altro faccia di meglio, ma a me piace comunque scrivere queste pagine.
Amo non solo raccontare la giornata, ma creare ponti fra il presente e il passato, stabilendo nessi o analogie, ricostruendo dati statistici, provando a immaginare il futuro. Ogni tanto, al lume di una candela col fischio di un treno in sottofondo, provo a pensare anche al mio, di futuro. E al mancato presente.
C'è chi mi dice che, in un contesto diverso, in un paese diverso, sarei diventato un giornalista; c'è chi mi dice che meriterei di più. Io non mi illudo: se invece di scrivere su un quotidiano lo faccio su un blog, qualche responsabilità devo averla.
Ma ciò non ostante, io non mollo. Chissà che il sogno non torni progetto. Perché c'è sempre la possibilità che il difensore incespichi sul pallone, si chiami Osorio o De Michelis. Perché c'è sempre la possibilità che nel sistema si apra una falla, grande quanto basta per infilarcisi dentro; imprevedibile come una zuccata suicida di Felipe Melo, e sarebbe imperdonabile non farsi trovare pronti (vero, Wesley?).
In questo paese di zucconi (l'Italia, non il Belgio) io continuo ad aspettare e sperare, con la penna in mano e il coltello fra i denti.
Uruguay – Germania si giocherà stasera
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